Quel maledetto ultimo giorno

Il 22 febbraio 1980 Valerio viene assassinato in casa sua, davanti ai suoi genitori, da tre individui con il viso mascherato. Cosa accadde quel giorno?

Carla Verbano racconta così le ultime ore di vita del figlio:

Verso le ore 12.45 di oggi ho sentito suonare alla porta della mia abitazione, sita all’interno 12 della scala B. Ho aperto senza guardare dallo spioncino perché non avevo alcun motivo di timore, ed è stato così che mi sono trovata innanzi tre individui, tutti con il volto travisato, che descriverò meglio in seguito. Sono rimasta senza parole per lo stupore e i tre, o meglio uno di essi, che calzava il berrettino marrone, mi ha chiesto testualmente: «Dove è Valerio?».

Ho fatto appena in tempo a rispondere che si trovava a scuola quando sono stata afferrata da uno di essi, che mi ha tamponato la bocca con una mano, sospingendomi all’interno dell’abitazione e chiedendomi contestualmente se in casa si trovava solo mio marito. Tutti sono entrati nella camera da letto dove si trovava mio marito, ad eccezione di quello che teneva a bada me. È stato così che ci hanno immobilizzato entrambi, legandoci con del nastro adesivo mani, piedi e tappandoci con lo stesso mezzo la bocca. Prima che mi mettessero il nastro adesivo sulla bocca, li ho pregati di far stendere sul letto mio marito, che nel frattempo era già stato legato e adagiato sul pavimento, facendo loro presente che soffriva di artrosi. Mi hanno accontentata stendendoci entrambi sul letto matrimoniale.

Devo precisare a questo punto che tutti i tre sconosciuti erano armati di pistola, una delle quali mi è sembrata inizialmente un bastone o un manganello, perché, come ho avuto modo di appurare, recava un grosso silenziatore avvolto in numerosi giri di nastro adesivo. I tre ci hanno chiesto a che ora rincasasse nostro figlio e ricevuta risposta nella maniera in cui potevamo rispondere, avendo la bocca coperta dal nastro, ci hanno raccomandato di non gridare e di non muoverci altrimenti sarebbe finita male. Ho tentato di farmi dire da loro quale fosse il motivo dell’aggressione ed essi, anzi quello con il berrettino marrone, mi ha detto che dovevano soltanto chiedere dei nomi a mio figlio e che non sarebbe successo niente. Mentre uno rimaneva costantemente a controllarci, quello col passamontagna celeste, gli altri due giravano nella casa e in particolare nell’ingresso, evidentemente nell’attesa dell’arrivo di mio figlio.

Egli è sopraggiunto verso le ore 13.40, quando ho sentito che introduceva le chiavi nella toppa della porta d’ingresso senza suonare. A tale avvisaglia, anche il terzo individuo che controllava noi si è avviato verso l’ingresso, e a questo punto ho inteso prima un rumore di colluttazione e subito dopo il rumore di vetri infranti della specchiera dell’attaccapanni che si era rotta. Ho udito quindi mio figlio gridare aiuto e poi un colpo di arma da fuoco molto attutito.

Mentre tentavo di trascinarmi legata verso l’ingresso, sentivo sempre mio figlio invocare aiuto, e quando sono riuscita a raggiungere l’atrio ho visto che la porta era stata lasciata aperta dai tre che si erano allontanati e che i vicini, richiamati dal rumore, stavano entrando in casa. Ho trovato mio figlio disteso sul divano del salotto di traverso, con le gambe fuori, che dava chiari segni di sofferenza. Non ho visto dove era stato ferito, perché abbiamo guardato solo sul davanti e alla testa senza notare lesioni o tracce di sangue. L’autoambulanza chiamata da un vicino è arrivata circa quindici minuti dopo, quando mio figlio incominciava a perdere sangue dalla bocca. Nel frattempo era sopraggiunta la Polizia, che ha tentato di prestare i primi soccorsi.

Le dichiarazioni di Sardo Verbano sulle ultime ore di vita del figlio sono simili. Una cosa importante che emerge dalle dichiarazioni di Sardo Verbano è che quel giorno lui non si recò al lavoro. Una cosa anomala per Sardo, che infatti ha dichiarato:

Nella giornata odierna non mi sono recato in ufficio, bensì assieme a mia moglie Zappelli Rina sono andato al Policlinico Umberto I per accertamenti medici. Assieme abbiamo fatto rientro a casa verso le ore 12.30. Dopo non molto, verso le ore 12.50 abbiamo udito, anzi mia moglie ha udito suonare il campanello di casa, per cui si è recata ad aprire.

Gli assassini di Valerio lo sapevano? Hanno agito all’insaputa di questa informazione o hanno agito lo stesso pur sapendo che entrambi i genitori erano in casa? E se così fosse, forse avevano pedinato preventivamente l’intera famiglia Verbano?

Immediatamente accorrono dunque i vicini di casa della famiglia Verbano, che poi testimonieranno alla polizia quanto hanno visto e sentito in quelle ore.

Verso le ore 13.30 mi trovavo nella mia abitazione intento a desinare, quando ho sentito un forte rumore, pensando che qualcuno avesse fatto cadere dei listelli che avevo posto all’angolo del pianerottolo adiacente all’abitazione del dott. Federico Pinci, sita all’int.14, sono uscito e m’avvidi che l’abitazione accanto alla mia aveva la porta aperta e dall’interno provenivano dei lamenti soffocati. Mi affacciai all’interno di essa e vidi la signora Verbano legata e imbavagliata che si trascinava seduta sul pavimento. Ho liberato la signora dai legamenti in nastro adesivo di colore marrone, e nel contempo la stessa mi indicava il figlio che giaceva su di un divano. Contemporaneamente entravano nell’appartamento altri inquilini tra i quali il mio collega Mirino Giuseppe.

Unitamente al Mirino abbiamo adagiato in modo migliore il Verbano Valerio, che prima stava con le gambe penzoloni dal divano stesso. Subito dopo incominciavano ad arrivare i primi soccorsi. Non ho sentito alcuna detonazione, e tantomeno uscire delle persone dall’abitazione del Verbano. Oltre ciò non ho sentito alcun trambusto per le scale.

Altre dichiarazioni dei vicini di casa convergono con quella di C. Gennaro. Tuttavia ce n’è una più accurata, che apre la porta a mille domande. È la dichiarazione di Gino De Angelis:

Verso le 13.40 circa, mentre stavo rientrando a casa, giunto in prossimità del portone d’ingresso dello stabile, notavo tre individui sui venti anni circa che stavano uscendo con passo piuttosto svelto. Uno dei tre e precisamente il più alto, che era quello che ho incrociato per primo, era alto circa 1,70-1,75, indossava un giaccone di colore chiaro, aveva capelli di colore castano chiaro, non molto lunghi e non portava né baffi né barba.

Gli altri due invece erano più bassi del primo di circa dieci centimetri e non portavano indumenti chiari. Preciso che il primo giovane era longilineo, mentre gli altri due rispetto al primo erano un po’ più paffuti, ma non grassi. Alcuni giorni addietro, non ricordo con esattezza quando, tre le ore 13 e le 14, notai quattro giovani, tra cui il Verbano Valerio, in via Monte Bianco, nei pressi del circolo Enal, che parlavano fra loro, mi sembra che i tre giovani incontrati oggi siano gli stessi. Probabilmente sarei in grado di riconoscere il primo dei tre giovani attraverso delle fotografie.

La Digos mostrò successivamente delle foto segnaletiche a Gino De Angelis, fra cui quelle di Nazareno De Angelis e Silvio Leoni, e altre di cui non è dato sapere, ma egli dichiarò di non aver riconosciuto nessun autore del fatto criminoso.

I ragazzi di cui parla Gino De Angelis erano gli stessi che aveva visto parlare con Valerio due giorni prima?

Fra i tanti vicini che accorrono in casa Verbano ce n’è uno particolarmente famoso alle cronache politiche e giudiziarie degli anni ’60 e ’70, che abbiamo già incontrato nel momento della morte di Paolo Rossi: è Mario Merlino, estremista di destra, che attraversa da protagonista tutti gli anni delle stragi fasciste e di Stato. Nel libro di Nicola Rao, Il piombo e la celtica, Merlino ha raccontato la sua presenza sul luogo del delitto. È l’unica testimonianza, fino al 2011, relativa alla sua presenza sul luogo del delitto, da lui stesso rilasciata. In questa intervista Merlino afferma che si era trasferito nel palazzo da poco tempo, al piano di sotto della famiglia Verbano e che conosceva Carla, in quanto, essendo lei una ex infermiera, si era prestata qualche volta a fare delle iniezioni al figlio piccolo dello stesso Merlino. Il giorno dell’omicidio il noto terrorista fascista narra di essere stato avvisato da una vicina di casa di quello che era successo, e di essere subito corso nell’appartamento dei Verbano. Stando alla sua testimonianza, lui stesso, per primo, ha slegato Carla e poi Sardo.

Quest’ultima dichiarazione contrasta nettamente con quelle fatte dagli altri vicini di casa, i quali affermano, nelle dichiarazioni rese alla Digos e sopra menzionate, di essere stati loro a slegare i coniugi Verbano.

Carla Verbano, d’altro canto, conferma che Merlino effettivamente fu tra le persone che accorse per aiutare lei e Sardo, ma a distanza di tanti anni non ricorda se fu esattamente lui a liberarli o meno. Carla, comunque, conferma che conosceva Merlino e che in qualche occasione si era recata nell’abitazione di lui e della moglie per fare delle iniezioni al loro figlio piccolo.

Fin qui tutto sembra rientrare nella casualità degli avvenimenti, ma occorre sottolineare un dato inquietante: Merlino non fu interrogato né dalla polizia del quarto distretto né dalla Digos, e successivamente neanche dal giudice D’Angelo. O, se lo fu, agli atti delle indagini non risulta nulla, niente, zero. Ma com’è possibile che uno dei personaggi più oscuri del neofascismo italiano, accorso per aiutare la famiglia Verbano, non sia stato interrogato dalla polizia né nell’immediato, né nei giorni successivi e nemmeno nei nove anni dell’istruttoria? Valerio aveva svolto approfondite ricerche sulla destra eversiva, e Merlino, con le sue ampie conoscenze dell’ambiente nazifascista romano, avrebbe potuto, se avesse voluto, aiutare gli inquirenti. Perché un testimone importante come lui non è stato mai interrogato?

Passeranno ben 32 anni prima che Merlino venga convocato dalla Procura di Roma, esattamente il 9 luglio 2012 e in questa occasione non riferirà ovviamente nulla di significativo, confermando semplicemente quanto da lui raccontato a Nicola Rao nel libro Il piombo e la celtica.

È lecito però chiedersi: Merlino era a conoscenza del lavoro di controinformazione svolto da Valerio? Non è un’ipotesi del tutto campata in aria, dal momento che i giornali avevano già ampiamente riportato la notizia del materiale sequestrato a Valerio a seguito dell’arresto.

Come detto, però, nelle carte dell’istruttoria non c’è traccia del passaggio di Mario Merlino. Questo è un esempio negativo di come gli inquirenti condurranno le indagini da quel 22 febbraio fino all’aprile del 1989, quando verrà archiviata l’istruttoria senza che siano trovati i colpevoli dell’omicidio di Valerio.

La ricostruzione della dinamica del delitto, agli atti, è affidata alle sole testimonianze di Carla e Sardo Verbano, che raccontano agli inquirenti giunti sul posto di essere stati immobilizzati e trattenuti nella loro camera da letto e di aver poi sentito, una volta rientrato Valerio a casa, rumori di colluttazione e un colpo esploso di pistola.

Alle 14.15, mentre il personale medico del Policlinico Umberto I accerta la morte di Valerio avvenuta in ambulanza, sul luogo del delitto arriva il personale della polizia scientifica per i rilievi.

Dal verbale di sopralluogo che viene stilato si legge che l’ingresso dell’abitazione dei Verbano è in disordine. I segni più visibili della colluttazione udita dai coniugi Verbano, avvenuta proprio nell’ingresso, sono rappresentati da uno specchio rotto e un attaccapanni capovolto, dietro il quale viene rinvenuto un rotolo di nastro adesivo integro, dello stesso tipo di quello usato per imbavagliare e legare i coniugi Verbano.

Nella parete di destra dell’ingresso, a poco meno di un metro d’altezza, viene rilevato un foro cieco di proiettile, che sarà poi estratto il giorno seguente dalla scientifica e risulterà essere un calibro 7,65. Sul pavimento, proprio sotto il foro di proiettile, viene repertato anche un bossolo, sul cui fondello è impressa la scritta 32 AUTO WW, che da perizia balistica risulterà appartenere alla stessa cartuccia del proiettile conficcato nel muro.

Su un mobile, sempre nell’ingresso, viene rinvenuta una borsa a tracolla color ghiaccio, aperta, contenente occhiali da sole, un teleobiettivo, un passamontagna scuro, un berretto di lana e una tuta blu con scarpette da ginnastica. La borsa in oggetto appartiene a Carla Verbano, ma non il suo contenuto: il passamontagna non è di nessun membro della famiglia, mentre gli occhiali da sole e il teleobiettivo sono oggetti che i killer hanno trafugato dalla camera di Valerio. È presumibile, infatti, che i killer abbiano riempito la borsa con l’intenzione di portare via qualcosa, ma che l’abbiano poi dimenticata quando si sono dati alla fuga.

Nell’attigua sala da pranzo, la scientifica rileva tracce di sangue sul divano e su un asciugamano posto sopra il divano. Sotto il divano viene rinvenuto un berretto di lana. Poco distante, la borsa a tracolla di cuoio di Valerio e, vicino, un guinzaglio a maglie piccole.

A circa due metri dal divano, a terra, giace una pistola con silenziatore, marca Beretta calibro 7,65, con numeri di matricola abrasi.

Il silenziatore a essa attaccato è artigianale ed è macchiato di sangue. Accanto alla pistola c’è una rudimentale custodia per silenziatore animata con stracci e rivestita con nastro adesivo analogo a quello usato per immobilizzare i Verbano. C’è anche un passamontagna celeste abbandonato vicino alla pistola.

Proseguendo con la descrizione fornita nel verbale, in camera da letto dei coniugi Verbano viene trovato del nastro adesivo spiegazzato, diviso in più segmenti abbastanza lunghi. Uno di questi segmenti ha un fazzoletto bianco attaccato a un’estremità.

Si tratta evidentemente del nastro usato per legare i Verbano e del fazzoletto usato per imbavagliarli.

Nella stanza di Valerio, stando sempre al verbale di sopralluogo della scientifica, c’è un armadio con le ante aperte e una gruccia a terra. Su un tavolino è appoggiata una macchina fotografica marca Zenit, priva di obiettivo, e altro materiale fotografico, come obiettivi, copriobiettivi, custodie per macchine fotografiche e per teleobiettivi.

Gli oggetti sopra menzionati, su ordine del funzionario della Digos e vicequestore Andreassi, presente anche lui sul luogo del delitto, vengono repertati in loco dal personale della scientifica, per essere poi da quest’ultima analizzati.

Ora, delle analisi scientifiche fatte su questi oggetti repertati, nelle carte processuali, sono riportate la perizia balistica sulla pistola Beretta e i proiettili e l’esame della macchina fotografica che si trovava nella stanza di Valerio, della quale fu sviluppato, con scarsi risultati come vedremo, il rullino.

Per quanto riguarda il restante materiale, come il passamontagna, il guinzaglio, il rotolo di nastro adesivo e il berretto rinvenuto nella borsa di Carla, tutti oggetti verosimilmente appartenuti ai killer, non ci sono relazioni peritali. Non è dato sapere, dunque, se in questi siano state rinvenute tracce di sangue, o capelli, o altro utile a risalire all’identità degli assassini.

Il verbale di sopralluogo accenna appena alle indagini svolte su questi oggetti:

Si dà atto che in sede di sopralluogo, per ordine del funzionario della DIGOS dottor Andreassi, sono stati repertati i sottoelencati oggetti che dopo accurato esame presso i locali del gabinetto regionale di Polizia scientifica vengono restituiti al prefato Ufficio.

Dunque questi oggetti, dopo “accurato esame” vengono restituiti alla Digos. Ma, come detto, di questi accurati esami non c’è traccia nelle carte dell’istruttoria, nemmeno una relazione che dica cosa è stato analizzato e come. Nello stesso verbale di sopralluogo viene sbrigativamente riportato l’esito negativo della ricerca delle impronte dei killer sul luogo del delitto:

Allo scopo di mettere in evidenza eventuali impronte di linee papillari latenti, abbiamo cosparso con polvere di alluminio tutti i mobili e gli oggetti con superficie levigata, presumibilmente toccati dagli ignoti, ma tale operazione ha dato esito negativo.

Carla Verbano dichiara sin da subito che uno dei killer, quello che indossava il passamontagna celeste, non aveva un guanto, e ne descrive persino le unghie17. I tre hanno frugato nella camera di Valerio, toccato i mobili nella stanza di Carla e Sardo, senza contare che c’è stata anche una colluttazione, nella quale sono stati perduti oggetti, come il rotolo integro di nastro adesivo, che molto probabilmente qualcuno di loro ha toccato senza guanti, se non altro nel momento dell’acquisto. È quindi poco soddisfacente leggere, in merito alla ricerca di impronte, solo due righe in un verbale di sopralluogo, ed è ancora più sconfortante, proprio alla luce della dinamica dell’omicidio, non trovare alcun accenno della ricerca di tracce ematiche appartenente agli assassini.

Anche se nelle carte manca una ricostruzione della dinamica del delitto fatta dagli inquirenti attraverso le risultanze scientifiche, possiamo ipotizzare a grandi linee, basandoci sulle testimonianze di Carla e Sardo, sul verbale di sopralluogo e su quelli della perizia balistica e dell’autopsia, che Valerio entrò in casa, trovò i suoi assassini nell’ingresso ad aspettarlo e reagì picchiandosi con loro. Si difese con tutte le sue forze, come testimoniano le numerose ecchimosi sul suo corpo e il disordine in casa. Riuscì probabilmente a togliere il passamontagna celeste a uno dei suoi aggressori, poi uno dei tre, e precisamente quello che aveva la pistola con il silenziatore artigianale, sparò un colpo, che si andò a conficcare nel muro, e poi un altro colpo che rimase inceppato dentro la camera di scoppio. Valerio riuscì probabilmente a disarmarlo, perché la pistola con silenziatore che sparò contro il muro è, stando alla perizia balistica, la stessa Beretta 7,65 rinvenuta a terra dagli inquirenti nell’abitazione.

Forse i colpi partirono da questa pistola durante la colluttazione, nella quale il silenziatore, peraltro, si macchiò di sangue. Ad ogni modo, Valerio cercò di scappare in sala da pranzo, presumibilmente per uscire in terrazza e da lì calarsi giù in strada, ma uno dei killer, armato di una calibro 38, lo fermò sparandogli un colpo alle spalle. Fu probabilmente questo il colpo, l’unico, che udirono Carla e Sardo Verbano, legati in camera da letto, dato che la Beretta aveva il silenziatore. In base all’esame autoptico, la traiettoria del proiettile risulta essere dal basso verso l’alto, con una leggera obliquità da destra verso sinistra, il che fa pensare che il killer si trovasse a terra in quel momento, e a una distanza abbastanza ravvicinata, di quaranta o cinquanta centimetri. Subito dopo il colpo Valerio cadde sul divano, colpito all’altezza della seconda vertebra lombare, mentre i killer si dileguarono velocemente dall’appartamento, lasciando la pistola con il silenziatore, la custodia del silenziatore, un guinzaglio, un passamontagna, un rotolo di nastro adesivo e altro materiale nella borsa color ghiaccio di Carla.

La ferita di Valerio è mortale, il proiettile ha lesionato l’aorta addominale e provocato una emorragia interna, e inutili sono i soccorsi.

Alla luce di questo quadro, ricercare tracce ematiche non appartenenti a Valerio, anche piccole, magari a terra o sullo specchio andato in frantumi, o nei passamontagna rinvenuti, o anche sotto le unghie di Valerio, dal momento che aveva colpito i suoi aggressori, sarebbe stato quantomeno sensato. Lo stesso si può dire in merito a una ricerca più accurata di impronte digitali, da farsi anche sugli oggetti come, appunto, il nastro adesivo o la pistola stessa, esami di cui nelle carte non c’è traccia.

Il giudice D’Angelo dà mandato al medico legale di eseguire l’autopsia sul corpo di Valerio, e chiede a questi di stabilire l’epoca e la causa della morte. Dal momento che si trattava di ferita d’arma da fuoco, il giudice chiede anche di accertare il numero dei colpi, la loro traiettoria e distanza dalla vittima. Il medico risponde alle domande, specificando che, per stabilire l’effettiva distanza, sarebbe stato necessario confrontare i risultati della perizia balistica.

Tale distanza può essere indicata, molto approssimativamente, nella misura di 40-50 centimetri; una maggiore precisione si potrebbe avere avendo a disposizione l’arma usata e verificandone gli effetti secondari dell’esplosione, essendo questi ultimi molto variabili.

Tuttavia questo confronto non verrà mai fatto, così come non sarà utilizzata in nessun modo l’informazione, espressamente richiesta dal giudice, circa il gruppo sanguigno di Valerio.

Al medico incaricato di svolgere l’autopsia, infatti, il giudice D’Angelo chiede di riferire il gruppo sanguigno di Valerio Verbano, che risulta essere B Rh positivo. Questo, presumibilmente, per compararlo con quello trovato in casa, e in particolare sul divano, sull’asciugamano e sul silenziatore, dove era possibile individuarlo anche a occhio nudo. Invece l’informazione sul gruppo sanguigno rimane fine a se stessa. Non risulta dalle carte che il sangue sul divano e sull’asciugamano sia stato analizzato, e nemmeno quello sul silenziatore che, più probabilmente, sarebbe potuto appartenere a uno dei killer. Al pari, nulla fu fatto per individuare eventuali tracce ematiche non immediatamente visibili a occhio nudo sul luogo del delitto. A cosa è servito stabilire il gruppo sanguigno di Valerio, se poi non sono state effettuate le dovute comparazioni con le altre tracce ematiche presenti sul luogo del delitto?

Ai periti della balistica, invece, il magistrato chiede di stabilire quali dei due proiettili repertati, uno conficcato nel muro d’ingresso e l’altro estratto dal corpo di Valerio, siano stati esplosi con la Beretta 7,65 rinvenuta sul luogo del delitto; chiede poi di precisare le cause che non hanno consentito l’espulsione del proiettile rinvenuto nella camera di scoppio della stessa pistola e, infine, di ricostruire il numero di matricola abrasa dell’arma.

In base ai risultati della perizia, la pistola Beretta 7,65, con matricola abrasa, munita di silenziatore artigianale, è la stessa che ha sparato il proiettile conficcato sul muro, cui appartiene anche il bossolo rinvenuto sul pavimento, proprio sotto il foro.

Il proiettile che ha ucciso Valerio, invece, proviene da una calibro 38 e presenta delle caratteristiche riconducibili a revolver calibro 38 marca Smith & Wesson, Sturm-Ruger o Taurus.

Per quanto riguarda la cartuccia inesplosa, rimasta dentro la camera di scoppio, il motivo della mancata esplosione è da attribuirsi alla presenza del silenziatore artigianale, e più precisamente alla imperfetta coassialità tra questo e la canna della pistola, cosa che ha provocato l’urto del proiettile contro i diaframmi interni del silenziatore. Infine, i periti ricostruiscono il numero di matricola con un buon margine di probabilità, e questo permetterà in effetti di risalire, come vedremo, al proprietario dell’arma il quale, come spiegherò meglio in seguito, si scoprirà essere l’agente di polizia Raffani.

Il depistaggio delle rivendicazioni

La prima rivendicazione dell’assassinio giunge alle 19.45 sotto forma di una telefonata anonima all’Ansa, in cui la voce di un uomo, che si dichiara appartenente al Gruppo Proletario Organizzato Armato, dice che l’omicidio del ragazzo è stato un errore, che l’intenzione era quella di gambizzarlo in quanto informatore della Polizia.

Alle ore 19.45 è qui pervenuta una telefonata anonima, di voce di uomo, il quale ha dettato il seguente messaggio: «Quel ragazzo ucciso è stato un errore. Volevamo solo gambizzarlo; è un delatore, un servo della Polizia. Seguirà comunicato. Gruppo Proletario Organizzato Armato».

Questa prima rivendicazione suggerisce un movente legato a un regolamento di conti e trasforma Valerio in un informatore della polizia. Al pari di quanto accaduto dopo l’omicidio di Fausto e Iaio, e anche dopo quello di Roberto Scialabba, gli inquirenti vengono depistati da rivendicazioni fuorvianti a cui scelgono di credere: nei primi due casi fu la loro presunta partecipazione ai traffici di droga, in questo la presunta attività di informatore svolta da Valerio.

Persino il Partito comunista contribuisce, a suo modo, a creare confusione, affermando che l’omicidio potrebbe derivare da una guerra interna al terrorismo rosso lasciando immaginare attraverso i suoi giornali, l’Unità e Paese Sera, che l’ipotesi che Verbano sia stato ucciso in quanto delatore non è affatto da scartare.

Fortunatamente, sia la famiglia di Valerio che i suoi compagni e le sue compagne riusciranno a smontare questa ipotesi politico-investigativa, dichiarando fin dal primo giorno che la matrice dell’assassinio è da ricercarsi nella destra neofascista.

A questa rivendicazione, comunque, ne segue una seconda, alle ore 21, giunta anch’essa presso l’Ansa attraverso una telefonata anonima. A rivendicare l’omicidio questa volta è il gruppo dei Nuclei Armati Rivoluzionari – Avanguardia di Fuoco che, facendo espressamente il nome di Valerio Verbano, dichiara di averlo ucciso perché l’anno precedente era stato il mandante dell’assassinio del “camerata” Stefano Cecchetti. Questo gruppo, per sottolineare l’autenticità della rivendicazione, indica il calibro 38 del proiettile che ha ucciso Verbano e riferisce anche di aver lasciato nell’appartamento una pistola calibro 7,65, che la polizia avrebbe nascosto senza informare la stampa:

Nuclei Armati Rivoluzionari – Avanguardia di Fuoco, alle ore 13.40 in via Monte Bianco abbiamo giustiziato Valerio Verbano.

I giornali e la televisione lo hanno descritto come un innocuo ragazzino, mentre un anno fa fu il mandante dell’assassinio del camerata Stefano Cecchetti a Talenti. Per quanto riguarda l’autenticità di questa rivendicazione, dall’autopsia risulterà che il colpo che l’ha ucciso è un calibro 38. Con questa azione non vogliamo riaprire la stupida guerra tra forze rivoluzionarie. D’altronde nulla può rimanere impunito. Onore ai camerati uccisi. Abbiamo lasciato nell’appartamento di Verbano una pistola calibro 7,65, la Polizia l’ha nascosta.

Questa seconda rivendicazione viene considerata, sia dagli inquirenti che dai giornali, ma anche dai compagni di Valerio, come la più importante, perché parla della pistola, probabilmente persa nella colluttazione, e del proiettile calibro 38 che lo ha effettivamente ucciso. Ma, a parte queste evidenze, l’indicazione del movente lascia tutti perplessi, dal momento che Valerio aveva più volte preso posizione pubblicamente criticando l’assassinio di Stefano Cecchetti, suo compagno di scuola, erroneamente ritenuto un fascista da chi l’ha ucciso, come abbiamo visto in precedenza.

Le ultime rivendicazioni della giornata arrivano entrambe alle 22.10: una al quotidiano Il Messaggero, l’altra sempre all’agenzia Ansa. La prima è del Movimento Rivoluzionario Popolare, che afferma di aver giustiziato Valerio Verbano in quanto «servo rosso del regime». La seconda, invece, arriva dai Nuclei Armati Rivoluzionari, i quali dichiarano che, dopo il fallito attentato a uno sporco rosso nel quartiere di Cinecittà, hanno colpito Antonio (sic) Verbano.

Entrambi questi comunicati terminano inneggiando alla memoria di Mikis Mantakas, studente greco iscritto all’Msi e ucciso nel 1975 durante gli scontri verificatisi in concomitanza con lo svolgimento del processo contro Achille Lollo.

Tratto da Valerio Verbano. Una ferita ancora aperta, pp 131 – 143.

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